giovedì 26 settembre 2013

E ora, la Sapienza



Pare che l’Università di Atene chiuda.
Pur nella consapevolezza che possa sgomentare abbastanza la psicolabilità italiota da indurre ad inondare di retorica una landa dove cinque individui e mezzo su dieci ammettono di non leggere in un anno neppure le istruzioni per lo shampoo contro la dermatite seborroica, ritengo vada fatta un po’ di sana auto-critica da parte di tutti.
Da tempo vado sostenendo come non sia un caso che le due culle precipue dell’Occidente, virtuoso sino all’avvento della Prima Rivoluzione Industriale all’interno della quale poterono covarsi i germi del capitalismo che annichilirà il mondo, stiano ora collassando per la decadenza pluridecennale del benché minimo standard di progressismo e, soprattutto, di onestà nell’amministrazione della cosa pubblica.
I greci truccarono i conti pubblici per accaparrarsi le olimpiadi, mettendo sul piatto miliardi che non avevano (così come non li aveva Roma un anno fa, quando per inspiegabile grazia divina Monti bloccò le velleità intrinsecamente sportive di una nazione allo sbando totale): e poiché – dispiace per lorsignori che guadagnano milioni di Like asserendo la bontà della plebe a fronte della spietatezza della classe politica “democraticamente” eletta – dicevo, poiché la classe dirigente è sempre prodotto, oltre che specchio, della cittadinanza, temo che la débacle ellenica fosse annunciata da parecchio. E pur non vivendo in Grecia, posso asserire con una vaga certezza che la miseria morale constatabile quotidianamente nelle genti nostrane sia equiparabile a quello del popolo greco. Ma diciamo pure spagnolo. Portghese, chessò. Prima o poi saranno contaminate anche le classi operaie, impiegatizie e dirigenti del Nord Europa, è solo questione di tempo. L’esterofilia non c’entra nulla.
Ora veniamo alla questione squisitamente universitaria.
Se tanto mi dà tanto, chiediamoci: forse che l’Università greca assomigli, negli ultimi, diciamo, trent’anni, all’università italiana? Sapete, l’assenza di campus, la struttura piramidale, i baroni, le lezioncine, le nozioncine, le dispensine del 1974, le lotterie di cinque minuti all’esame, l’ammazzamento di qualsivoglia formazione umanistica di livello mutuata in un succo tuttifrutti mascherabile da paideia classica di ispirazione platonica?
L’andazzo di un Paese si vede soprattutto nelle sue prigioni e nelle sue scuole, specie universitarie: beh, lasciate che ve lo dica dati OCSE alla mano, il sistema scolastico italiano (come quello greco) è in picchiata totale da tempo. Una montagna di tempo.
Qualcuno ci ha messo una pezza sopra? Andate, andate a farvi un giro nelle università e ditemi se, a essere un minimo onesti, le nostre università possano dirsi MINIMAMENTE dei luoghi di formazione, o se siano piuttosto un crogiuolo della peggior insensatezza rinvenibile nella nostra tradizione.
All’interno di strutture vecchie e inadeguate agiscono forme di pensiero e modus operandi vecchi e inadeguati: una forma deteriore di nozionismo condito di desideri utilitaristici, che sforna pochi laureati spesso incompetenti e timorosi dinnanzi alla vita, perché timorosi sempre e comunque sono stati con i loro irraggiungibili tromboni accademici.
Possiamo davvero piangere, al netto dell’oggettivamente devastante situazione greca, per la chiusura dell’emblema di un’istituzione che ha oggettivamente fal-li-to? L’Università non è la filarmonica, non è arte e non è un totem. La musica nella sua più alta compiutezza non deve essere toccata, e la sua soppressione è stato un peccato imperdonabile di cui l’Europa dovrà rispondere, prima o poi.
Ma l’Università è qualcosa d’altro. Non è un Notturno di Chopin, intoccabile e perfetto, da eseguire eventualmente con un gusto diverso a seconda dell’epoca o sensibilità di chi esegue: è un ente di formazione. Le esigenze formative cambiano. Il Mondo, piaccia o meno, e io sono uno di quelli a cui non piace, cambia e cambierà. Vogliamo impuntarci a vedere il contrario? Fate pure. Io personalmente guardo al futuro.
Essendo totalmente incapace di stimolare e pungolare gli allievi al di là di una comprensibile voglia di acquisire un pezzo di carta, l’Università così organizzata non può fare altro che essere chiusa.
Non se ne può più di sentire la retorica di quanto sono bravi i ragazzi che studiano, che vanno all’università, e magari fanno parte di quel 40% di studenti – magari anche brillanti – che smettono presto o finiscono tardi per la fatica di affrontare il TSO giornaliero che l’istituzione universitaria comporta alla sua utenza.
Se l’università ha solo costi, e raggiunge bassezze tali da generare selve di  laureati frustrati e insoddisfatti dall’essere mantenuti a trentadue anni in attesa di un posto decente, e nel frattempo non ha neppure il buon gusto di fornire a quei futuri frustrati una formazione come si deve, basta: va chiusa.
A meno che non si abbia la voglia, la capacità e la visione per cambiare. Radicalmente.
Conoscendo gli italiani, e immaginando i greci simili ad essi, pur addolorandomi per le loro e nostre sventure, so che non basterà questa crisi a generare una resipiscenza che amerei attendermi da due popoli che hanno permesso quanto di meglio è avvenuto, o si è creato, negli ultimi due millenni. L’Occidente sta tramontando, e nelle sue rappresentazioni più secolari manifesta un’apocalittica riottosità all’auto-analisi, al cambiamento. Quindi qualche mossa, sia pure col pretesto dell’insolvibilità, va fatta. Se l’Università di Atene costava in misura inversamente proporzionale a quello che produceva – il nulla, si presume, o mal che fosse l’ennesimo futuro dirigente servile e corrotto – è un bene, per la cultura, che sia stata chiusa.
Come andrebbero chiuse anche molte università italiane. Magari cominciando dalla Sapienza.
Distruggere sarebbe l’unico modo per ricominciare, e ripensare anche da par nostro all’intero sistema scolastico. Chiediamo all’Europa di sprangare anche le porte delle nostre università. Il tempo di spargere in giro la fuffa dell’attentato alla cultura, per mobilitare sindacalisti e baroni, e spacciare la riapertura di questi non-luoghi come una vittoria dell’Umanesimo. A sua insaputa.

lunedì 1 luglio 2013

Lucky






Oggi il mio cane è morto.

Aveva 14 anni di età canina, quindi 98 anni umani, ma considerato che l’età canina è una minchiata antropomorfizzante inventata dall’uomo il conteggio resta sempre implacabile: 14.
E’ morto, in preda a convulsioni epilettiche improvvise, a nemmeno due giorni dai primi sintomi.
Stava scendendo le scale, e all’improvviso bam!, le gambe non gli reggevano e ha picchiato la testa. Pensavamo a una sorta di rincoglionimento senile, nemmeno c’è venuto in mente di portarlo dal veterinario.
Comunque, non sarebbe servito. Ha tirato giù tutti alle cinque del mattino, non ce la faceva più.
Io non c’ero.
Dormivo da un’altra parte, sono stato chiamato poco prima dell’iniezione.
Mi sono vestito, ho atteso che i miei gentili visitatori occasionalmente accorsi in un giorno inopportuno andassero via, sono corso in clinica.
Era lì, steso, bellissimo come sempre. Pareva dormisse. Dormiva molto.
L’ho accarezzato un’ultima volta, e me ne sono andato.

Se ve lo state chiedendo, nel caso non lo trovaste lampante da alcuni indizi, beh, vi dico che non ho pianto. Né piango adesso. Né credo piangerò.

In fondo non mi dispiaceva troppo per lui.
E’ una merda dirlo, ma è così. Almeno per la metà della vita, non è stato fortunato.
Me l’ero ritrovato sotto il tavolo l’ultimo giorno di scuola, in prima media. Correva dovunque, scagazzando qua e là, e non si lasciava prendere.
E’ stato così per 14 anni. Dopo sette anni ho colpevolmente smesso di rincorrerlo.
Gli volevo bene, provavo a giocarci, ma non mi filava. Non ha mai filato nessuno, né firmato le gesta buffe che mi sarei aspettato da un animaletto che ero troppo piccolo per definire un amico, e non abbastanza grande da non considerare un peluche più dinamico.
Suona un po’ come addossare la colpa di un rapporto mancato al cane. Grottesco, ridicolo, inaccettabile.
Ma in parte è così.
Onestamente non ho mai visto un cane così anaffettivo eppure tanto buono, adorabile, totalmente incapace di fare del male.
Non l’ho mai capito.
Né lui, evidentemente, ha mai capito noi. E in questo doveva essere enormemente intelligente.

Col senno di poi, e non dell’undicenne che ero, immaginando di essere padrone della mia vita almeno quanto chiunque dovrebbe essere prima di assoggettare a sé la felicità di un altro essere vivente, mi sarei comportato diversamente.
L’avrei educato a stare fuori dalla mia camera, ma non fuori dalla mia casa, perché fra amici teoricamente si fa così.
Gli avrei regalato il bel giardino che ha avuto per sé, lasciandogli però tutte le porte aperte.
L’avrei fatto trombare, perché niente è più triste che arrivare al traguardo senza avere mai visto l’ombra di una fregna.
Gli avrei permesso di volermi bene.
Sono sicuro che l’avrebbe fatto, e ora sarei nella mia camera a piangere, anziché davanti a un computer a scrivere un raccontino del cazzo che leggeranno in venti.

I primi sette anni sono stati belli lo stesso. Per gli altri sette, mi dispiace. Tanto.

mercoledì 23 gennaio 2013

Corona non perdona

Sono tre o quattro giorni che si parla solo di Fabrizio Corona. Ovunque, finanche al telegiornale di Mentana, noto fiancheggiatore del faceto.
Non ho indagato sulle motivazioni della sentenza. So questo: la Cassazione gli ha comminato cinque anni per estorsione aggravata ai danni di David Trezeguet.
Cinque anni di galera.
Pazzesco, poco da fare.
In un Paese in cui Marcello Dell'Utri, condannato a 7 anni per concorso in associazione mafiosa, stava per candidarsi col Pdl, si scomoda l'Interpol per ritrovare un paparazzo.
Corona, per quelli che sono i parametri assunti come oltremodo positivi nella condizione post-moderna, ha avuto tanto dalla vita. Bellezza, donne, fama, soldi a palate. Non si è mai accontentato, né se lo sarebbe mai permesso.
La sua colpa più grande, al di là delle evasioni fiscali, dell'ignoranza profusa, della volgarità disseminata ovunque, è stata la sua pretesa di non avere limiti. Di poter prevaricare su tutto e tutti, impunemente, nella Terra dell'Impunità Relativa.
La sentenza è indiscutibile. Dura, eccessiva, ridicola se rapportata al contesto sociale: ma indiscutibile.
Si può discutere di due cose.
La prima è semplice: in un momento storico maledettamente cruciale per l'Italia, concedere ogni spazio possibile alla vicenda di un noto fotografo significa distrarre gli italiani, già di per sé volpi notoriamente arzille, da problemi appena più gravi, e impellenti. Difatti, da giorni triellano i soliti schieramenti: chi difende Corona; chi vorrebbe vederlo morire in carcere; chi parla della vicenda affermando che la vicenda, in sé, non rientra esattamente fra le cosiddette "pre.pro.pre." (precipue proprie preoccupazioni).
La seconda è più complessa.
David Trezeguet non è una persona qualunque. E' un calciatore famoso il cui stipendio, di inaccettabile entità e sul quale ha sempre pagato altrove le tasse, è determinato da un insieme di fattori: la pubblicità, e quindi la popolarità, ne costituisce il 70%. Se una persona popolare viene beccato a mignotte, o a cornificare la moglie, per quanto encomiabili possano ritenersi entrambi i gesti, avrà un calo di popolarità. Quindi di sponsor. Quindi di introiti.
Se foste stati David Trezeguet, avreste preferito regalare a Corona una settimana di tiri in porta, o essere scoperti da vostra moglie?
Il fatto che Corona sia stato condannato solo per l'estorsione a Trezeguet dimostra: a) che Corona ha fatto qualche cazzata in più del solito; b) che Trezeguet ha denunciato Corona, mentre altri suoi colleghi VIP non l'hanno fatto. Se su cento vittime di estorisione l'estorsore viene denunciato una volta sola, mentre in tutti gli altri casi l'estorsore guadagna vendendo al soggetto fotografato fotografie che avrebbe venduto il giorno dopo a qualche giornale, il suo gesto cessa di assumere qualsivoglia connotazione negativa.
La popolarità e i compensi che questi personaggi, ivi incluso Berlusconi che pagò Corona per le foto di sua figlia, hanno guadagnato sul nulla negli ultimi vent'anni, hanno semplicemente trovato nella prassi di Corona l'inevitabile contrappasso: il doveroso prezzo da pagare per un paradiso conquistato senza fatica, sull'idiozia innata degli italiani.
In definitiva, Corona può essere visto come estorsore, ma anche come benefattore di sé e dei VIP.
Di sicuro, per essere un criminale, si è dimostrato parecchio fesso.
Altrettanto sicuramente, potesse candidarsi, prenderebbe più voti di Ingroia.

martedì 8 gennaio 2013

Era fiero di sua figlia

Premessa: "Non è  un paese per vecchi" è una traduzione errata, orribile e fuorviante. McCarthy voleva dire proprio "Non esiste paese per vecchi". Perché è l'uomo tutto, e quindi il globo, ad aver visto una mutazione genetica.
Per quelli con le promesse dentro al cuore, per i costruttori di abbeveratoi indistruttibili, non c'è più spazio. Non ce n'è, e basta.
Esempio, i ragazzini. Ce lo si metta in testa: non è che parlino di cazzi e pompini a 12 anni perché hanno genitori malati, o incolti, o menefreghisti: sono solo un'altra razza di esseri umani.
A dieci anni vogliono i telefonino, a undici il portatile, a tredici scopare se nel frattempo non si sono già esauriti su video la cui eroticità intrinseca è appena più su in classifica di un calzettone bianco su ballerina di cuoio nero e fiocchettino di vernice beige. E di Nicole Minetti.
Non c'è da fare moralismi, indignarsi, gridare allo scandalo. E' ridicolo. E' inutile. Tutto sommato non succederà niente di che.
In fondo, per quanti secoli i figli degli schiavi hanno fatto gli schiavi?
Un paio di generazioni se la sono spassata per trenta, quarant'anni, e via, chiuso, finito: ora la giostra ricomincia.
E proprio da Internet. Ma ci pensate?
Uno strumento così straordinario e così semplice da bloccare al contempo, ma nessuno che tenti di sopprimerlo come sarebbe lecito attendersi innazi a un carbonarismo davvero pericoloso per l'Ordine.
Gli Indignados venerano il Web; i governi lo ringraziano.
Surreale, no?


Ma non era di questo che volevo parlare.
Ho letto tante statistiche, ultimamente. Sapete, da radical-chic cerco un posto dove emigrare, e la vita non sia merda vilipesa da fascisti democristiani, e ci sia qualche angolo verde dove far scorazzare un bambino.
Mi ha molto colpito un dato in particolare. Se ne parla da tempo, ma nell'arrivare tardi sono secondo solo a Ilaria D'Amico.
Comunque, il dato è che i laureati in Italia non hanno spazio; che se al posto di buttare anni all'Università cercavi di imparare un mestiere, forse a quest'ora qualche possibilità l'avevi; che, insomma, i diplomati trovano lavoro molto più in fretta dei laureati, i quali - automaticamente cittadini di serie A +++ - devono andarsene altrove a veder riconosciuto il proprio genio irrinunciabile all'Umanità.
Ma cosa significa essere laureati, in Italia?
Quale bagaglio tecnico - formativo, realmente utile in campo professionale, si può desumere essere regolarmente assunto dall'universitario normotipo, nonché convogliato in qualcosa di vagamente similare all'idea ottocentesca di "formazione"?
E soprattutto, i governi succedutisi negli anni sono stati incapaci di valorizzare gli studi, o dei maghi a rendere concettualmente ammissibile l'odierno paradosso, creando un sistema universitario che forma molto meno di quanto non faccia un anno di apprendistato in una pasticceria?

Fate un piccolo test. Prendete un libro, uno qualsiasi, chessò, Storia della lingua italiana di De Mauro. Bel libro, eh, niente da dire. Ma vediamo in cosa consiste la preparazione di un esame universitario di, appunto, Lingua Italiana.
Per prima cosa, compri il libro. Questo di De Mauro, e altri  due, o tre. Dipende dai crediti formativi. I CFU. Le tabelle affermano che ogni CFU equivale a 25 ore di studio complessivo, quindi tre libri sulle 150 pagine cadauno da studiare fanno 6 CFU.
Geni. Geni.
Il professore non può sgarrare, altrimenti gli studenti si ribellano, oh, se si ribellano.
Una volta ho visto una scena epica. Due giovincelle (poi dott.sse cum laude) imputavano senza pudore alcuno a un'insegnante di spagnolo di aver ecceduto di 5 ore il programma previsto per gli aventi 6 CFU:
"noi portiamo un programma più piccolo, giusto?".
La faccia della donna, prima del "Sì, va bene...", mi rimarrà impressa per tutta la vita.
Comunque, torniamo al libro.
Se il docente è un'anima pia, oltre che rea, suole farne trovare le fotocopie in qualche copisteria connivente. Tu vai in copisteria, spendi 20-30 euro di fotocopie, compri un evidenziatore e vai a casa.
Leggi. Sottolinei. Rileggi. Ripeti.
Ti sei fatto anche gli appunti in classe, ma il docente è tenuto a interrogarti sul libro, altrimenti guai a lui. Quindi puoi anche lasciarli stare.
Se sei uno di quelli che non ti si è mai bloccato il telefono per aver cannato tre volte il PIN, né ti sei mai chiuso il portone di casa con le chiavi appese dietro, arrivi all'esame che potresti recitare De Mauro a memoria, come i vecchi presidi dei licei facevano con la Divina Commedia.
De Mauro afferma.
De Mauro dice.
Secondo De Mauro.

Se arriva il fesso che pensa di stare in Danimarca:
"Io ho pensato di analizzare..."
"Prego?"
"No, cioè, volevo dire, personalmente ritengo..."
"Eh??"
"Insomma, solo che, pensavo..."
"Fuori.".

Lo schema si ripete all'infinito. I grandi professori rimasti sono il 2% dell'organico e sono quasi tutti ricercatori che guadagnerebbero di più a pulire le scale; per il resto è tutto un gran ingoiare di dati che si dimenticano il giorno dopo l'esame. Come il mangime per i maiali diretti ai macelli affiliati Mc Donald's.
Se la cultura è quello che ti rimane dopo che hai studiato, beh: fate un po' voi.
E chiedetevi se certa gente possa dirsi davvero più necessaria di un elettricista.

La stessa cosa avviene per i concorsi, prima i TFA e poi quelli per l'insegnamento. E' semplice passarli, diamine. E poi, come sono meritocratici.
Pensate, occorre solo andare in una libreria, pagare 50 euro, e vi beccate qualche migliaio di test e domande a risposta multipla o aperta da imparare a memoria. Non dovete fare altro che memorizzarle, onde vomitarle in sede d'esame.
Non è fantastico?
Riuscite a immaginare un primo sbarramento più intensamente selettivo per decidere chi insegnerà Italiano ai vostri figli e chi al massimo potrà andare a insegnare al Cepu?

Ma alla fine, che importa. Fra un po' nemmeno esisteranno più, gli insegnanti. Comprerete su Internet dei video del MIUR, pregni di filosofia multitasking, di pillole del sapere, e via.
Gli insegnanti in carne ed ossa, magari bravi, saranno roba vecchia, per l'élite sborona e sorniona. Che per puro spirito aristocratico farà stare la prole a casa, con un precettore inutilmente colto e appassionato di cose antiche; e, che squallore, i futuri dirigenti mica studieranno sull'I-Pad, con quei colori, quei luccichii, no, macché: su qualche vecchio libro logoro e impolverato. Faranno loro leggere Marcuse, Dostoevskij, Sartre.

Che prezzo orrendo da dover pagare, solo per comandare.




lunedì 17 dicembre 2012

Grillo, tra salvezza e ginegogia

Scrivo ancora una cosa su Grillo, poi basta.

Ieri sera è venuto a Trieste. Una marea di gente. Una marea. Specie se si considera la vitalità dei triestini, la leggendarietà della cui pigrizia è stata definitivamente infranta dalla spettacolare manifestazione in Porto Vecchio contro il rigassificatore. Tondo se n'è andato dopo dieci minuti, Clini neanche è entrato. Uno spettacolo.
Dicevo. Erano tutti in coda: una svendita di Iphone5? No, per Dio. Erano, eravamo, lì, a firmare per avere alle prossime elezioni un'alternativa. Non si sa fino a che punto salvifica e futuribile, ma è almeno un'alternativa. In fondo, peggio di così non si può andare - no? Davvero? Mah.
Aver osservato Grillo dal vivo per la prima volta - e sticazzi - mi ha spinto a diverse considerazioni, che quivi inoltro ad elencare: alcune positive (P) e altre su cui riflettere pensosamente (R).

1P) Se mai ve ne fosse bisogno, confermo: Grillo è un comunicatore eccezionale. E i brividi, ogni tanto, son venuti. Per smuovere le mummie che siamo occorre un po' di adrenalina, di flebo che introduca in un sangue marcio la sensazione concreta di essere, per una volta, parte di qualcosa.
E' probabile che il primo Berlusconi seppe compiere la stessa impresa: ma se stavolta, anziché ad evadere le tasse, la gente sarà spinta a consumare meno e usare le rinnovabili, tutto sommato potrei ritenermi contento.

1R) Grillo è forse troppo bravo. La sua bravura coincide col suo essere ancora una bestia da palco, il che alimenta il Fattore - Messia: la gente vuol salutarlo, stringergli la mano, farsi la foto con lui. Vuole - l'udii più volte- toccarlo. Toccarlo. Ecco, sarebbe d'uopo non avere certe fregole in testa. Grillo sta facendo grandi cose, ma guai a divinizzarlo. Ci si tolga subito 'sta smania per il simulacro, e l'adorazione spicciola lasciamola nelle parrocchie.

2P) Grillo, almeno nella prima ora, non ha detto nemmeno una parolaccia, per citare il povero - a sua insaputa - Follini. Nemmeno una. Tranne l'ormai usuale "cazzo cazzo - culo culo" per le telecamere. Poi, nell'ultima parte, si è un po' scaldato e qualcuna gli è scappata. Dal conteggio si evince una percentuale di volgarità profuse infinitamente inferiore a quelle registrate nei primi otto minuti di un qualsiasi film di Christian De Sica. Bravo: se la porta a zero, Gianni The Pen Riotta si rassegnerà a defolloware pure se stesso.

2R) Troppa retorica sugli italiani: "SIAMO I MIGLIORI DEL MONDO!!!": va bene ritrovare la fiducia identitaria nazionale, Grillo, ma, come si dice: anche no. Non lo eravamo trent'anni fa, e di certo non lo siamo oggi.
Poi, d'accordo, se giochiamo sul piano dei doni all'Umanità, un Paese ritenuto all'avanguardia assoluta, come la Svezia, (che ha donato sì e no l'Ikea e Filippa Lagerback, e di entrambi avremmo fatto volentieri a meno), ce lo mangiamo a colazione. Ma il credito sarebbe anche esaurito: per ora usiamo l'imperfetto, ché un po' di pudore non guasta.

3P) Il Movimento pare voler dare importanza agli studi, alle lauree, ai master. Visti i parlamentari che ci troviamo, forse è una buona cosa.

3R) Grillo dà troppa importanza agli studi, alle lauree, ai master. "I NOSTRI CANDIDATI HANNO TUTTI ALMENO UNA LAUREA SE NON ANCHE UN MASTER!"
Maurizio Landini non ha neppure il diploma e caga novanta volte in testa al 95 per cento dei laureati con triplo master di questo paese.
Grillo si metta in testa una cosa (che sa benissimo, visto che ha ben evitato l'Università): il più delle volte la cultura, l'intelligenza e l'inventiva stanno fuori dalle accademie, e chi ha un master è solo uno che ha un titolo in più in bacheca: non è un cittadino di serie A+++
Non vorremmo, insomma, che da una prassi dispregiativa verso lo studio e gli acculturati dei banchi di tutta Italia, si oscilli verso l'altro capo del pendolo, fino a considerare meritevoli solo e soltanto i detentori del pezzo di carta.
Ah, un ultimo appunto, Grillo: una laurea triennale e una laurea specialistica, a casa mia (che modestamente è quella della coerenza), fanno UNA laurea.

4P) Grillo dimostra di avere a cuore la presenza delle donne all'interno delle istituzioni. Ha votato, dice, anche una donna che insegna e ha tre figli a carico. Questi sono i vostri sostenitori, donne, non la Gruber ("c'è del maschilismo, molto maschilismo, in Grillo). Aprite gli occhi o vi fotteranno sempre.

4R) Grillo, quando parla delle donne, esonda. "SE LE ELEZIONI SONO LIBERE, LA GENTE VOTA LE DONNE!" E fin qui ci siamo. Non è pensabile che, in un sistema davvero democratico, ci sia una maggioranza così schiacciante di uomini (chiamali uomini). E non è un caso che in Parlamento si debbano immaginare le Biancofiore, le Bernini, o le Santanché, come uniche rappresentanti del sesso forte.
Ma dire "che bello, avremo molte più donne che uomini" non è sintomo di grande lungimiranza; bensì di sessismo, solo vagamente inedito e ritrito in una veste più edulcorata, appetibile per la platea femminile.
Secondo quale principio una donna è meglio di un uomo, in Parlamento? Se un uomo è in gamba ci deve poter andare, se una donna è in gamba ci deve poter andare: punto.
Il resto sono balle - mi si permetta - demagogiche. Ginegogiche. Grillo è un ginegogo.
Anche perché, a ben vedere, è tutto da dimostrare che le donne abbiano una maggior capacità di fare certi passi indietro. A ben vedere direi di no, ma può darsi che mi sbagli io. Lo spero, almeno. Ma fa strano sentire Grillo dirsi "commosso" per la presenza di una componente femminile largamente maggioritaria. Specie se poi si aggiunge: "di donne ma non le sciacquette che vediamo: DI DONNE COI COGLIONI!". Ecco, capiamoci.


Detto questo, e con molte riserve, incrociamo le dita. Ora o mai più.


giovedì 13 dicembre 2012

Democrazia


“Chi pensa che io non sia democratico prende, e va fuori dalle palle.”

Fantastico. Assolutamente fantastico. La mossa più geniale di Grillo da prima della traversata sicula.
Sì perché negli ultimi due giorni è tutto un “aah, che autogol”, “uuuh, dittatore!” – giusto, ma bisognerebbe chiedersi fino a che punto il masochismo popolare possa indurre a perseverare nell’accettazione di un concetto, come quello di Democrazia, saccheggiato e totalmente svuotato da coloro i quali da decenni si propongono come garanti della stessa. Un genio del Novecento scrisse che la differenza tra democrazia e dittatura è che in democrazia prima si vota, e poi si prendono gli ordini; in dittatura non occorre neanche sprecare tempo andando a votare. Personalmente sono sempre stato dello stesso avviso.
Non c'è stato nessun errore. Anzi.
Il video è fenomenale, pensato apposta per essere inserito addirittura in un servizio di qualsiasi tg nazionale (invano, tanto ognuno lascia solo ciò che fa più comodo, come nel caso della Gruber).
Si noti il climax ascendente: prima l’autoelogio, dal voto libero alle tante donne; poi l’ammissione del flop con annesso attacco alla finta democraticità dell’elezione dei parlamentari; poi, la cesura, con la frase storica; infine, la dichiarazione di guerra. Chapeau. Tu chiamalo, se vuoi, Lenin 2.0.
Perché dico Chapeau.
A due mesi dalle elezioni più fuffa della Storia della democrazia rappresentativa globale, il Movimento 5 stelle era a un bivio. Il consenso leggermente in calo; i dissidenti illustri che fioccavano come funghi a redigere puntuale martirologio di se stessi (finiamola, su: erano a fine mandato e, per le regole che coscientemente avevano accettato quando pensavano che il Movimento non potesse sfondare il 5% nazionale, sapevano di non poter incollarsi a una nuova poltroncina, stavolta più mediaticamente ed economicamente appagante, in Parlamento: fine della storia);il ritorno di Berlusconi e la permanenza alla leadership del Pd di Bersani a costituire la più ghiotta delle occasioni: occorreva radicalizzare lo scontro: rischiare il declino, se non addirittura l’implosione – un rischio che valeva la pena di essere corso, poiché con la moderazione in Italia non si vince mai – oppure sfondare il muro del 22, 24 per cento, accaparrandosi ulteriori voti da parte di quei tanti italiani che altro non aspettano se non di essere sedotti da un nuovo maschio alfa sedicente abile a cacciarli fuori dalla merda.
I sondaggi SWG – i più attendibili – dimostrano la già avvenuta risalita nei consensi: c’è da vedere se nei prossimi giorni sfocierà nel volo, o si permuterà in una stasi che non prometterebbe nulla di entusiasmante in vista dei seggi.
Nel primo caso, Grillo e Casaleggio potranno assaltare la Bastiglia.
Non saranno bei giorni, ma saranno giorni nuovi, forse terribili, violenti e incendiari, dalle cui ceneri potrà rinascere, forse, qualcosa.
Nel secondo caso, ci ritroveremo ad annaspare ancora per cinquant’anni con le solite vecchie facce da culo. Ma democratiche.

domenica 9 dicembre 2012

Mah.



Ricapitoliamo. Questo cazzo di spread scende a 290. Io ero rimasto lì, non so voi. Lo spread è a 290. La Repubblica, in un numero storico da collezione, presentava il titolone corredato degli schizzi scannerizzati di Scalfari in effetto seppia.
Ormai doveva per forza andare tutto bene, c’eravamo acchetati. Ancora un anno di tagli, di sanità devastata, di Scuola destituita, e sarebbe tornato tutto più o meno normale, nella placida deriva di una rassegnazione europeista graveolenta come gli schizzi di un novantenne ambizioso su una democrazia ancora in attesa di uno sfogo perlomeno adolescenziale.
C’eravamo quasi abituati, a Monti. Il nonno Monti. Quello che vai a trovare la domenica, dopo la messa, e, ogni tanto, ti cucina qualche piatto buono per farti credere che ti vuol bene mentre lo schifi esattamente come la fica amazzonica della moglie.
Temo che i problemi derivino tutti da qui. Siamo gente infelice, che tromba poco e male, adusa a rifarsi delle proprie frustrazioni su individui e contesti che nulla vi hanno a che fare.
Monti, imbevuto com’è di quella meritocrazia misurabile col righello, in modo semplice, primitivo, lineare come lo smantellamento dello stato sociale perpetrato con i fili che si ingarbugliavano troppo di rado,  somigliava, somiglia, troppo, alla trasposizione di sé che l’italiano medio cova segretamente nell’irrisolvibilità metempsicotica delle doglie genitoriali. Quell’italiano che guarda intriso di spaventata ammirazione il neo-laureato figlio della retorica oscena dell’ultimo spot Enel.
Berlusconi, invece, continua a somigliare all’ologramma che l’italiano medio tende a prefigurarsi nei suoi sogni a suo dire migliori. L’Italiano che vuole scopare, comandare e sentirsi ggiovane anche a novantadue anni, continuerà a votarlo in eterno, reiterandosi in tanti nuovi ggiovani vecchi pronti a porgere terga prematuramente avizzite per esautorare definitivamente la Storia e le sue innumerevoli lezioni mai colte.

C’è un canale nella mia città, che è una gran brutta città. Ci sarebbe anche il mare, ma se ne sta nascosto dietro il comignolo di una centrale a carbone che ogni tanto sputacchia porcherie in giro. Percorrendo il canale, tra anziani bavosi che commentano un culo insolitamente riuscito per quei lidi, sobbalzante in cerca di fisicità impeccabile, si arriva al cantiere navale. Alle cinque, un esercito di operai bengalesi in bicicletta si ritirano nel biasimo generale dopo una giornata china a ingollare frammenti e profluvi di lana di vetro.
E’ un lavoro di merda, mi raccontava Daniel, ma è un lavoro. Lo è all’Ikea, Daniel, lo so, figuriamoci in cantiere.
Mario l’ha perso. A cinquant’anni, una moglie e due figli piccoli, Mario ha perso il lavoro. E’ una brava persona, nella media delle persone mediamente buone. Lavora(va), si fa la sua vita, non rompe i coglioni a nessuno. Due giorni fa, forse tre, è venuto a trovarci a casa. Stavo traducendo Cornelio Nepote (che palle, Nepote). Mario ha iniziato a parlare, non ha più smesso per un’ora.
Il voto a Bersani. Grillo come Hitler. I grillini che minacciano di morte la Salsi, che si sarà pure esposta perché non poteva partecipare alle parlamentarie e si era affezionata alla poltrona, ma non si fa. I grillini sono violenti. Con Bersani non cambia nulla, ma sanno che hanno un’ultima possibilità, poi la gente va giù di forconi. Grillo non ha un programma.
Ha detto una frase, davvero sensata. Una sola.
“State attenti, voi giovani, ché appena ce ne andiamo noi e con noi le pensioni, vi cacciano in mezzo a una strada. Dovete darvi una svegliata. Incazzatevi. Quando saremo morti noi, ce l’avrete durissima. Fate qualcosa.”
Facciamo qualcosa.